“All’alba della Modernità” con Marco Almagisti
“E’ stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora.”
Winston Churchill
La Grecia classica di Pericle e Platone, nel nostro immaginario, è la patria della democrazia. Con gli occhi della fantasia vediamo piazze assolate, assemblee composte e solenni sotto un cielo terso, dove uomini attempati e saggi esprimono con sottili ragionamenti alti concetti universali.
Uomini, appunto, e non donne.
E uomini di alto censo e di padre a madre cittadini e non liberti. Perché in epoca classica una minoranza esigua governava, si dedicava alla cosa pubblica, alle arti ed alla filosofia perché sostenuta e appoggiata ad una massa di schiavi.
Per Platone la democrazia era una pessima forma di governo, perché esposta fatalmente al rischio della demagogia. I governanti eletti, infatti, sono portati a decidere ciò che piace al popolo per garantirsi il suo consenso e il proprio potere.
Nel medioevo non si parla più di democrazia.
Il concetto comincia a riapparire in età comunale, quando si inizia a parlare di libertà del singolo dalla servitù della gleba, libertà garantita dalla sua appartenenza alla città (l’aria della città rende liberi), ma ancora esercitata in forma plebiscitaria e non regolata da norme di garanzia.
La democrazia per molti illuministi (Rousseau) è ancora una forma di governo da evitare, pericolosa perché di fatto impossibile. Essi infatti pensano alla democrazia diretta.
Mentre occorre arrivare all’intuizione che prende forma in ambito anglosassone e si realizza con la rivoluzione americana, del connubio tra democrazia e rappresentanza. Solo con la delega, per cui il delegato agisce per conto del delegante, si rende possibile la creazione delle istituzioni democratiche, (incarnate dal Parlamento) come le conosciamo.
L’istituto del parlamento era stato creato ben prima, in pieno medioevo, (Inghilterra) ad opera di sovrani assoluti, i quali avevano la necessità di conoscere gli umori e i bisogni dei governati. Nessun autocrate infatti può governare senza conoscere, senza un legame con il proprio popolo. Il parlamento (Camera Alta e Camera dei Comuni) esprimeva, pur tra le rigide divisioni di classe della società dell’epoca, questa esigenza di coesione sociale, di raccordo tra istituzioni e nazione, dove il Re si presentava in parlamento per far approvare le proprie proposte.
All’alba della modernità si ripresenta il problema, arricchito ed esplicitato dal nuovo concetto di rappresentanza: come fare perché chi governa possa conoscere e mediare le necessità dei governati?
Agendo per conto ed in nome dei propri elettori, i rappresentanti popolari possono assolvere questo compito a precise condizioni.
L’Italia e la Germania, due paesi di recente unificazione, sono stati negli ultimi 150 anni culla di democrazia ma anche incubatori nella loro pancia delle peggiori aberrazioni.
Nonostante tutto in Italia si è sperimentato, dopo la seconda guerra mondiale, il più virtuoso esempio di democrazia, anzi l’unico tra i paesi latini usciti dal conflitto. Fino agli anni ’70 il nostro Pese era infatti l’unico retto democraticamente, mentre Spagna, Portogallo e Grecia erano in balia di regimi autoritari.
De Gasperi e i padri costituenti, espressione della classe politica uscita dalla guerra, hanno ancorato la fragile democrazia italiana uscita dalla resistenza e da una guerra civile devastante, grazie alla nascita ed alla presenza capillare sul territorio dei partiti.
Sono stati i partiti politici a mediare gli interessi, a trasmettere fin nei più piccoli paesi, sotto ogni campanile, la presenza delle istituzioni e del nuovo Stato ad una Nazione sfinita e disabituata alle regole della democrazia.
I partiti hanno insegnato l’abc, Comunisti e Democristiani , Peppone e Don Camillo, hanno svolto la loro funzione fino agli anni ’70, quando hanno cominciato a perdere il contatto con il Paese. Come dice Giovanni Moro, figlio di Aldo Moro, non hanno capito che il bambino era cresciuto e che non si potevano governare gli italiani con le stesse categorie culturali e sociali del 1945. Altre necessità nascevano, altre classi sociali si affermavano (le donne ed i giovani) , la classe operaia era al tramonto, così come entrava in crisi il tessuto identitario rappresentato dalla Chiesa cattolica che aveva tenuto insieme l’Italia nei momenti più drammatici. Aldo Moro e pochi altri avevano capito che era il momento di modernizzare e rileggere il paese con altri occhi.
Per mantenere il consenso sociale, in assenza di statisti e leader all’altezza delle sfide e dei tempi, i vecchi partiti hanno aperto i cordoni della borsa con una politica di welfare che si è dimostrata insostenibile nel tempo. E siamo (quasi ) ai giorni nostri. Non volendo infatti soffermarci sull’ultimo ventennio.
La dialettica conflittuale tra rappresentati e rappresentanti, dunque, continua ora più che mai , non più sostenuta dai patiti, persi ormai in una eterna riconfigurazione, in un cantiere senza fine, fatto di primarie, di scissioni , di correnti e movimenti dal basso.
La questione ritorna dunque. Democrazia rappresentativa o democrazia diretta ?
Al nostro paese manca ancora una sufficiente cultura politica, ovvero la sensibilità, il rispetto e l’identificazione degli italiani con le istituzioni e le regole dalla rappresentanza, manca la vigilanza, il rendere conto e il chieder conto dei rappresentati ai rappresentanti e viceversa. E cresce la presenza dei movimenti spontanei, alimentati dalla rete, che chiedono una democrazia diretta, che vogliono partecipare, essere attivi.
Aspirazioni e voglia di partecipazione che esprimono una vitalità ed una creatività che fanno ancora una volta dell’Italia uno straordinario laboratorio politico, che anticipa le tendenze e le correnti del futuro.